Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante-Recensione
1989, di Peter Greenaway
Quello di Peter Greenaway non è un cinema di mezze misure. Quasi mai. Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante non fa di certo eccezione. Una sala da pranzo dai toni cremisi dove dei malavitosi consumano, tra rigurgiti e rutti, opulenti convivi. Una toilette abbagliante come scenario di un rischioso adulterio appena sbocciato. Una cucina buia dove questo, complici gli addetti, il loro supervisore e la penombra di immense credenze, si consolida a suon di amplessi e passione. Cibo, sesso e morte, come ne La grande bouffe di Ferreri. Grottesco e tragico in perfetta armonia quindi, come elementi imprescindibili di una danza tragica. È un film politico. Fu Greenaway stesso a dichiararlo. Il sentimento proletario che fa dell’oppressione il suo tormento è la forza ideologica di questo film : la supremazia violenta di chi esercita il potere che sovrasta la cultura e la società stessa, il liberismo sfrenato e la volgarità dell’individuo che ne deriva. Era la fine degli anni ottanta, e il thatcherismo ormai maturo che stava cambiando il volto del paese influenzò decisamente il pensiero di Greenaway. Da qui il cinismo, la complessità dei simboli e delle metafore. Quella del regista gallese è un’inarrestabile tendenza all’eccesso, ridondante di decori e coprolalia; una parabola fin troppo faziosa nell’ostentare artifici e nel suscitare disgusto. Arriverà, spietata, la vendetta. E arriverà in maniera solenne, teatrale, spingendo ancora oltre i limiti filmici, carico più che mai di quell’atroce e insostenibile disprezzo che è per Greenaway il filo conduttore dell’intera pellicola.