Chinatown-Recensione
1974, di Roman Polanski
La sceneggiatura di Chinatown venne commissionata dalla Paramount e scritta da Robert Towne. 180 pagine ingarbugliate, tuttavia assai interessanti. Polanski accettò la regia, ma il finale andava cambiato. Troppo romantico, quello di Towne, e poco originale. Era necessaria la morte della protagonista, e suo padre non avrebbe fatto nulla per evitarla. “Sbagliato, immorale, non è la storia che ho scritto”, disse lo sceneggiatore. “Ma è proprio questo che renderebbe il film indimenticabile”, replicò il regista inflessibile. Il talento, d’altronde, è proprio questo: capire ciò che si ha per le mani, le esigenze del pubblico, la forza dell’arte. Ebbe la meglio sullo sceneggiatore e poi, senza incertezze, si concretizzò il resto, come in un perfetto disegno della sorte.
Jack Nicholson nel ruolo del protagonista , agli inizi degli anni settanta, voleva dire avere sul set il migliore attore di quel decennio. Faye Dunaway piaceva a Polanski: le ricordava sua madre, disse. Quella bellezza “retrò”, quella maniacalità nella cura dell’aspetto, dal trucco alle sopracciglia sottili, dai capelli alla bocca carnosa e intensa, fu un elemento estetico fondamentale per la riuscita del film. E poi John Huston, monumentale nell’interpretazione del cattivissimo Noah Cross. Atmosfere dense, intrecci, corruzione e una fitta rete di misteri, come nel miglior noir degli anni quaranta. Un occhio al passato quindi, ma anche a nuovi, inquietanti scenari. Violenza, perversione e il male dell’uomo, capace di violare se stesso e la natura che lo circonda. Quello di Roman è un male estremo, ambiguo, forse lo stesso che aveva conosciuto da piccolo in Polonia e qualche anno prima a Beverly Hills. Chinatown uscì nel 1974 e fu uno dei più grandi successi di Polanski.